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Diario di viaggio a tema schizofrenia, allucinazioni, psichiatria, tribunali e soluzioni di recovery.

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antipsicotici

Gli antipsicotici andrebbero limitati al controllo dei momenti di psicosi acuta e andrebbero evitati i trattamenti a lungo termine perché aumentano il rischio di ricadute, di discinesia e atrofia cerebrale

Federico Bergna · 08/02/2019 · Lascia un commento

Il ricercatore Robin Murray riconosce i suoi errori nella comprensione della schizofrenia. In un nuovo articolo, pubblicato su Schizophrenia Bulletin, lo psichiatra Sir Robin Murray riflette sulla storia della ricerca sulla schizofrenia e sugli errori commessi.

Murray, professore all’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze a Londra, afferma di aver ignorato per troppo tempo i fattori sociali che contribuiscono alla “schizofrenia”. Riferisce anche di aver trascurato gli effetti collaterali dei farmaci antipsicotici sul cervello.

Murray afferma:

“Sorprendentemente, è tale il potere del modello Kraepeliano che alcuni psichiatri rifiutano ancora di accettare le evidenze e si aggrappano alla visione nichilista secondo cui esiste un processo schizofrenico intrinsecamente progressivo, una visione molto controproducente per loro pazienti”.

Robin Murray, psichiatra scozzese e professore di ricerca psichiatrica presso l’Institute of Psychiatry, Kings College di Londra
Murray, che ha iniziato la sua attività come psichiatra nel 1972, descrive il passaggio della psichiatria statunitense a metà degli anni ’70 “dall’essere totalmente psicoanalitica a quasi completamente biologica”.

Da questo cambiamento, c’è stata una maggiore concentrazione sul ruolo della dopamina e sui fattori genetici nella “schizofrenia”.

Durante gli anni ’70, la “schizofrenia” cominciò ad essere considerata una malattia neurodegenerativa.
Questa teoria era supportata da uno studio che aveva rilevato un aumento del volume dei ventricoli nel cervello degli individui con diagnosi di “schizofrenia”.

Murray si rammarica del fatto che lui e molti altri abbiano ignorato un altro studio pubblicato all’incirca nello stesso periodo, che rilevava come l’uso a lungo termine dei farmaci antipsicotici potesse portare a cambiamenti cerebrali persistenti, principalmente nella sensibilità dei recettori della dopamina e che possono portare alla discinesia tardiva.

È stato nel 2008, quando uno studio più recente mostrava gli effetti dei farmaci antipsicotici sul volume ventricolare, che Murray ha iniziato a prestare attenzione agli effetti a lungo termine dell’uso degli antipsicotici.

Egli afferma:

“Quindi, nel 2016, è chiaro che gli antipsicotici ad alte dosi contribuiscono non ai piccoli cambiamenti cerebrali presenti all’inizio della schizofrenia, ma ai successivi cambiamenti progressivi.”

Murray analizza anche la teoria dello sviluppo neurologico della schizofrenia “l’idea che il disturbo sia causato da problemi durante la nascita e lo sviluppo precoce”. Ora, Murray si riferisce a questa teoria come una “sopravvalutazione” delle prove.

Murray discute anche della supersensibilità alla dopamina, sul fatto che il trattamento con antipsicotici a lungo termine può portare ad un aumento dei recettori della dopamina, il ché aumenta la sensibilità alla dopamina e diminuisce l’efficacia dei farmaci antipsicotici.

Afferma: “Aumentiamo la possibilità che i farmaci antipsicotici possano rendere alcuni pazienti schizofrenici più vulnerabili alle ricadute future rispetto a quanto accadrebbe nel corso naturale della malattia”.

Murray crede nell’uso dei farmaci antipsicotici per trattare la schizofrenia, ma è diventato più cauto nel suo uso a lungo termine, dicendo:

“Non c’è dubbio che gli antipsicotici sono necessari nella psicosi attiva acuta. Ma dobbiamo forse continuare a prescriverli in alcuni pazienti perché abbiamo reso il recettore D2 [dopamina] supersensibile all’eccesso di dopamina rilasciato? Io, e in effetti la maggior parte dei ricercatori, ho trascurato questa questione di vitale importanza”.

Murray afferma che si aspetta che il concetto di “schizofrenia” come disordine astratto divenga obsoleto, proprio come “idropisia”.

Scrive:
“Nei decenni successivi al 1976, ho trascorso più tempo ed energie di quanto vorrei ricordare, cercando di scoprire cosa causava i cambiamenti cerebrali nella schizofrenia”.

Purtroppo, non mi sono reso conto che gli effetti di fattori di rischio come eventi avversi alla nascita o struttura e funzione del cervello che possono essere facilmente osservati nei campioni di soggetti non schizofrenici, sono nascosti nelle persone con schizofrenia dall’effetto degli antipsicotici ed altri fattori di rischio.

È significativo che uno psichiatra di primo piano ammetta gli errori psichiatrici e chieda maggiori ricerche su fattori ambientali ed epigenetici. Questo potrebbe indicare un cambiamento nel campo della psichiatria se gli altri seguissero la guida di Murray.

Conclude:

“Se avessi la possibilità di avere una seconda carriera, mi impegnerei di più a non seguire la moda del gregge.
Gli errori che ho commesso, almeno quelli che ho intuito, di solito sono il risultato di una eccessiva adesione all’ortodossia dominante”.

Articolo originale in inglese: vai all’articolo

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GIORNO 172: clozapina e sentire le voci

Federico Bergna · 30/01/2019 · Lascia un commento

Un uditore di voci può ritrovarsi a udire dalle 2.000 fino anche a 20.000 parole, imposte dalle voci. (dato fornito da testimonianze dirette che raccontano di come alcuni uditori, nelle fasi peggiori, colloquino continuamente con le voci per 12/18 ore consecutivamente. Per colloquiare si intende anche solo un dialogo interno del soggetto che risponde a voci che sente realmente).

Il dato è molto realistico. Per farti capire quanto possa essere invalidante la quotidianità di un uditore, guarda la foto allegata a questo post. Sono esattamente 1000 parole, che riempono il classico foglio A4 che si utilizza per stampare documenti.

Se tu dovessi stampare questo foglio, e leggere tutto di un fiato le frasi scritte, impiegheresti anche meno di 5 minuti per leggere tutto il foglio.

Ma le voci non si comportano in questa maniera ovvero non “scaraventano” 1000 parole tutte di un colpo per poi non farsi più sentire.

Immagina questo: spalma queste 1000 parole udite, in 60 minuti (un’ora). Mediamente l’uditore sentirà circa 16 parole ogni minuto, frasi alle quali l’uditore può NON rispondere oppure RISPONDERE sia vocalmente, sia con un dialogo interno.

Immagina quindi che per un’ora intera, ogni 60 secondi, l’uditore sia costretto a udire e spesso a controbattere e rispondere, ad una frase lunga 16 parole che mediamente, arriva ogni minuto.

Se ipoteticamente una giornata è fatta da 8 ore di sonno (ma spesso anche meno) sarà facile comprendere come dopo 16/18 ore di veglia, un uditore possa arrivare a sentire anche fino a 18.000/20.000 parole al giorno dalle voci.

In altri casi, la quantità e la frequenza delle voci, è nettamente inferiore, anche molto meno della metà. Per fare un esempio, un uditore di voci che sta attraversando un buon periodo emotivo dato da un controllo ed una consapevolezza di questo fenomeno, può arrivare a sentire anche solo 500 parole “spalmate” durante l’arco della giornata. Anche meno.

Va da sè che il parametro “frequenza delle parole udite”, è un riferimento importante dal quale partire per capire indirettamente, il grado di disagio di un uditore di voci.

E’ estremamente importante quindi, attuare delle vere e proprie strategie che mirino in egual modo, a:

– ridurre la frequenza e la quantità delle parole udite ad un livello accettabile per l’utente, in modo tale che la loro frequenza, non impedisca al soggetto di relazionarsi con l’ambiente esterno, le persone e il proprio dialogo interno nel prendere decisioni quotidiane, anche banali, durante la propria routine giornaliera.

– comprendere le sensazioni che si provano quando si sentono le voci. Tali sensazioni posso spaziare anche in sentimenti nettamente contrapposti tra “felicità nel sentire che la voce dice quello che dice” alla “paura o addirittura a sensazioni di terrore” che l’uditore prova nel sentire le frasi delle sue voci.

Arrivare ad un buon compromesso dove “frequenza delle voci sentite” e “gestione delle emozioni provate in rapporto alle voci sentite” è la strada da perseguire per un uditore di voci.

E’ un dato di fatto, in qualunque ambito, che nel momento in cui abbiamo il pieno controllo di noi stessi o delle situazioni che ci accadono, siamo pienamente sicuri di noi stessi.

Nel caso opposto, quando non abbiamo il controllo di qualche cosa, dobbiamo sforzarci per cambiare alcune dinamiche per recuperare sicurezza in noi stessi e affrontare quel qualcosa di diverso che non ci aspettavamo.

Per chi non conosce gli uditori di voci, provi a considerare quanto segue:

– un uditore di voci, può sentire le voci anche mentre parla realmente con un interlocutore di fronte a lui. Dedica quindi parecchie risorse per concentrarsi a non sentirle e seguire la persona di fronte, spesso, non riuscendoci.
– anche i gesti più banali fatti durante il giorno (sbucciare un frutto, intingere un biscotto nel caffè latte, chiudere una porta piuttosto che socchiuderla, e via dicendo) influenzano pesantemente l’uditore in quanto la voce, può giungere nel mentre del gesto che si compie, poco prima o anche dopo il gesto compiuto.

LA MIA VALUTAZIONE SULLA INUTILITA’ DI UN ANTIPSICOTICO ATIPICO COME LA CLOZAPINA

Quando un uditore di voci sente per la prima volta in vita sua una voce, può (non necessariamente) cadere in un barato chiamato letteralmente “TERRORE”.

Non in tutti i casi ma nella maggior parte, le fasi possono snocciolarsi come segue:
1) incredulità di aver sentito una o più voci;
2) consapevolezza di sentirle ed essere totalmente sicuro che non sono allucinazioni;
3) fase di ansia, paura per non trovare una spiegazione in ciò che gli sta succedendo;
4) fase di terrore e perdita del controllo delle proprie emozioni mentre arrivano le voci ed anche mentre non le sente;
4) isolamento totale nei confronti dei famigliari;
5) isolamento totale al di fuori del nucleo famigliare;
6) fase in cui si prova a reagire a quanto dicono le voci in quanto l’uditore le percepisce effettivamente reali. Fase che comprende dire o compiere azioni verso cose o persone che possono anche compromettere l’integrità e la sicurezza sia dell’uditore, sia delle cose o persone alle quali l’uditore si rivolge.

Quando un uditore giunge alla 6° fase, incontra la psichiatria (T.S.O. o T.S.V. a seconda della gravità di pensieri e azioni fatte dall’uditore verso se stesso, verso altre persone o verso oggetti).

Solitamente poi seguono uno o più ricoveri nell’arco dello stesso anno legato all’esordio (esordio inteso come giorno in cui l’uditore viene scoperto a parlare con le voci) fino ad altri ricoveri nei successivi 3/6 anni fino a giungere all’ultimo stadio farmacologico della Clozapina e diagnosi di schizofrenia cronica.

E’ chiaro che in una situazione estremamente delicata dove l’uditore parlando con le voci, minaccia l’integrità di cose o persone è difficile affrontare la situazione in quanto, un familiare può constatare quanto segue:

– l’uditore può solamente minacciare ma senza esser mai passato ai fatti concreti;
– l’uditore può effettivamente spaccare oggetti o minacciare la salute di persone all’interno o all’esterno della famiglia;
– in alcuni casi, può passare dalle ipotesi di mettere in pratica quello che vuole a compierlo;

Cosa faresti tu in una situazione simile non conoscendo minimamente le dinamiche di un uditore di voci come spiegato a inizio post?

Ora parliamoci chiaro… immagina un ragazzotto robusto alto i metro e novanta per 90kg che si avvia verso l’uscio di casa con l’intento di far male a qualcuno ed in una situazione dove in casa magari è presente solamente una mamma o un papà, magari di una certa età. Cosa fai?

– lo placchi e lo butti a terra?
– lo leghi fino a quando si calma?

Sono situazioni estremamente difficili, dolorose e imprevedibili. L’unica ipotesi possibile per placare una situazione d’emergenza simile è sedare pesantemente l’uditore.

Sedazione = impedimento fisico nel compiere azioni deleterie.

Ad oggi vorrei che non si arrivasse mai ad una soluzione così dirompente come l’assunzione di uno psicofarmaco dagli innumerevoli effetti collaterali fisici e psichici per tamponare velocemente e pesantemente certe situazioni ma la realtà dei fatti è purtroppo questa, in molte, moltissime famiglie alle prese con questi esordi.

E’ giusto? E’ sbagliato? Non posso darmi una risposta ora che siamo ai posteri. Probabilmente se avessi avuto moltissimi anni fa le conoscenze e l’esperienza che ho adesso con gli uditori di voci, posso giurare su quanto mi è rimasto di più caro nella mia vita, che non ci sarebbe stato nemmeno il famoso “esordio psicotico acuto” inteso come esordio nel quale l’uditore minaccia (o compie) azioni pericolose per gli altri o se stesso.

Quindi cosa ne penso? E’ utile sedare un paziente con psicofarmaci in situazioni simili?

SI’ E’ UTILE, LO DEVO AMMETTERE. MA E’ UNA PRASSI QUESTA CHE SERVE UNICAMENTE A COPRIRE UN UNICA VERITA’.
IN PRIMO LUOGO, UNA TOTALE IGNORANZA ED INESPERIENZA DI PROFESSIONISTI E O.S.S. RIGUARDO GLI UDITORI DI VOCI ED IN SECONDO LUOGO CHE LA SEDAZIONE IN QUESTI SPECIFICI CASI, NON E’ UNA STAMPELLA, COSI’ COME MOLTISSIMI PROFESSIONISTI DEFINISCONO GLI PSICOFARMACI MA SONO UNA VERA E PROPRIA COPERTA O FORSE, UN VELO PIETOSO.

Una coperta che serve nell’immediato per risolvere una situazione di pericolo che ben molto prima, poteva essere evitata.

Ad oggi ho esperienze significative vissute in prima persona per poter dire che è possibile evitare (con la prevenzione) l’uso di sostanze pesantemente sedative in uditori di voci prima che essi arrivino ad un loro drammatico esordio così come è stato descritto in questo articolo.

Men che meno è necessario l’utilizzo di antipsicotici con posologie cosiddette di “mantenimento” dopo uno o più esordi acuti, sempre come nelle situazioni descritte in questo testo.

PREVENZIONE E CONOSCENZA, SONO LE PAROLE CHE EVITERANNO TERAPIE FARMACOLOGICHE ERRATE.

Ma errate in riferimento a che cosa?

Se in fase di anamnesi, lo specialista raffronterà i dati raccolti dall’utente e dai familiari riferendosi in seguito ad un modello di raffronto ben preciso che definisce cosa è schizofrenia e cosa non lo è, la diagnosi che ne risulterà sarà molto probabilmente congruente alla terapia psicoterapeutica e farmacologica prevista.

Lo specialista quindi, insisterà, difenderà e valorizzerà l’affermare che se una persona dice, pensa, compie determinate cose, e queste parole, pensieri e azioni raggiungono un “punteggio” che determina la diagnosi di schizofrenia, la persona in oggetto sarà certificata schizofrenica avendo raccolto dati sufficienti dall’anamnesi grazie anche ad esami obiettivi.

In fase di anamnesi quindi, si raccolgono informazioni che dovranno poi essere messe a confronto con un modello, un riferimento per poter procedere verso un preciso percorso psicoterapeutico e farmacologico.

Il problema è che il modello al quale si fa riferimento, adotta poi in risposta strategie e percorsi NON ALEATORI O SOGGETTIVI MA SCIENTIFICI per far sì che un professionista, possa essere in grado di fare quanto gli è possibile in scienza e coscienza, per migliorare la qualità di vita dell’uditore schizofrenico.

E tale modello prevede:
– cosa è schizofrenico e cosa non lo è;
– quali percorsi psicoterapeutici di conseguenza adottare;
– quale terapia farmacologica di conseguenza adottare;

Ufficialmente non si può guarire dalla schizofrenia. E’ esatto! Mai affermazione è stata più coerente e veritiera, basandosi su di un modello che ha caratteristiche e strategie ben precise da attuare post diagnosi.

E come tutte le strategie farmacologiche (e psicoterapeutiche) ci sono spesso delle conseguenze che aggiungono ulteriore invalidità, sia fisica, sia psicologica.

Lo si chiama compromesso? Compromesso tra migliorare qualcosa da una parte e perdere qualcosa da un’altra?

Ma chi ha deciso che questo compromesso, sia giusto?

Chi o che cosa o in che ambito è stato deciso il peso di questo compromesso?

Lo decidono i test clinici delle case farmaceutiche il peso di questo compromesso?

Lo decidono dei test clinici il significato de “il paziente ha migliorato la qualità della propria vita?”

Lo decide lo specialista che ha preso in carico una persona definire su che cosa basarsi per poter dire “ha migliorato la qualità della vita?”

Risultati di test clinici su di un campione numerico di persone molto limitato rispetto alla popolazione mondiale, differente per età, condizioni di salute, esperienze di vita passate, estrazione sociale e innumerevoli altri fattori, rappresentano veramente un riferimento scientifico che non può essere contraddetto e confutato?

Una delle tante risposte in forma di prevenzione al modello attuale di schizofrenia, può essere questo:

PRENDETE UN UDITORE DI VOCI E SPIEGATEGLI CHE IL SUO SENTIRE, E’ UN TALENTO DA DOMARE. NON SI AMMALERA’ MAI.PRENDETE UN UDITORE DI VOCI E DITEGLI CHE HA UNA PATOLOGIA INGUARIBILE. FARA’ DI TUTTO PER COMPORTARSI E SENTIRSI MALATO. NON GUARIRA’ MAI.

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Di Giorgio Antonucci: gli psicofarmaci sono dannosi punto e basta.

Federico Bergna · 20/11/2018 · Lascia un commento

Estratto di un intervista a Giorgio Antonucci (medico e psicanalista). Intervista realizzata da Michele Mezzanotte. Fonte, articolo e intervista integrale dal sito: “GLI PSICOFARMACI SONO DANNOSI PUNTO E BASTA. GIORGIO ANTONUCCI È MORTO, MA LE SUE IDEE NO”

“Io penso che gli psicofarmaci non servano a nulla, se non ad intossicare l’organismo.

Ho sempre lottato e discusso con le persone che ho incontrato nei manicomi al fine di togliere dalla loro vita gli psicofarmaci. Per un problema psicologico servono analisi e dialogo, come aveva ben sottolineato Freud con il suo lavoro. Il problema psicologico non richiede intossicazione e non richiede il drogarsi. Il farmaco è una droga legalizzata.

Edelweiss Cotti era lungimirante a tal proposito e tolse subito gli psicofarmaci dai suoi istituti. Senza psicofarmaci le persone sono lucide, discutono e sono avvantaggiate nella cura.

Gli psicofarmaci sono dannosi punto e basta.

Nelle cliniche psichiatriche di oggi le persone giovani vengono sottoposte a grandi quantità di psicofarmaci. A causa di questi sopraggiunge a volte il tremito parkinsoniano perché intossicano le vie nervose. Inoltre più prendono psicofarmaci, più si riducono male; più si riducono male, più gli psichiatri dicono che sono inguaribili, più la situazione peggiora.

Io ho visto persone che da anni prendevano psicofarmaci e che sono venute con me in parlamento europeo a difendere i loro diritti. Le persone spesso vengono messe nell’impossibilità di vivere in queste cliniche o negli ospedali.

Lo psicofarmaco è terribile come la castrazione, l’elettroshock, la lobotomia, ed altre nefandezze perpetuate nei manicomi.

Io, Cotti, ed altri, abbiamo detto che non bisogna sistemare la psichiatria, ma bisogna proprio eliminarla. La psichiatria è un metodo di controllo terribile e violento. Bisogna aprire un dialogo filosofico e socratico con le persone. Quella di Freud fu una grande rivoluzione. Si passò dal paziente-oggetto al paziente-soggetto interagendo reciprocamente attraverso la dialettica.”

AVVISO PER IL LETTORE: tutti gli articoli presenti su questo sito, non vengono realizzati da alcun nostro autore (ad eccezione degli articoli sotto la categoria “storytelling”). Ci limitiamo nel riportare su questo sito, materiale informativo reperito in rete citando la fonte di provenienza. Avvisiamo quindi il lettore nel valutare con distacco le informazioni qui reperibili in quanto non possiamo garantire la veridicità delle informazioni riguardo le fonti di provenienza.

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Uso di neurolettici e antipsicotici: deve essere riconsiderata l’efficacia?

Federico Bergna · 15/11/2018 · Lascia un commento

Nel video lo psichiatra Giuseppe Tibaldi, tra le altre cose, parla dei NEUROLETTICI o ANTIPSICOTICI affermando che il loro uso deve essere riconsiderato.
Da uno studio randomizzato e controllato della durata di 7 anni si è visto infatti che il gruppo in cui l’uso degli antipsicotici veniva ridotto e sospeso aveva una percentuale di guarigione funzionale pari al 40% degli individui, mentre nel gruppo in cui il trattamento era mantenuto per tutta la durata del periodo di osservazione, la percentuale di guarigione funzionale era solo del 18%.

Alla luce di questi risultati gli antipsicotici non dovrebbere essere ritenuti indispensabili, in modo particolare nel primo anno di trattamento del disturbo psichico.
In accordo col fatto che anche le case farmaceutiche attualmente non hanno in studio e sperimentazione molecole nuove, i trattamenti farmacologici devono essere riconsiderati e devono essere privilegiati altri tipi di approcci non farmacologici per la cura dei disagi psichici come interventi psicologici e psicosociali.

Tibaldi ribadisce che gli operatori del settore, gli psichiatri, allo stato attuale non sono in grado di operare una riduzione e una sospensione degli psicofarmaci in sicurezza per il paziente. Non esistono cioè corsi universitari o parauniversitari che preparino gli psichiatri ad affrontare questo delicato processo.
A questo scopo occorre perciò creare un dialogo con le associazioni degli utenti per collaborare in modo da affrontare questo grosso problema.

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Di Robert Whitaker: gli psicofarmaci rappresentano un problema per il superamento dei disturbi psichici.

Federico Bergna · 12/11/2018 · Lascia un commento

Ecco un breve riassunto della conferenza di ROBERT WHITAKER a Reggio Emilia.

Robert Whitaker ha spiegato che gli psicofarmaci rappresentano un problema per il superamento dei disturbi psichici.
Ha spiegato che alla base di tali disturbi, quali depressione e schizofrenia, non c’è uno squilibrio chimico del cervello e che lo psicofarmaco, pertanto, non cura nessuno squilibrio.

La teoria dello squilibrio serve alle case farmaceutiche per la promozione degli psicofarmaci, ma è priva di basi scientifiche.

Al contrario, lo psicofarmaco quando agisce crea uno squilibrio chimico, in quanto il cervello per mantenere l’omeostasi, tende ad opporsi al cambiamento indotto.Tale squilibrio indotto dallo psicofarmaco è responsabile dei problemi di dismissione dello psicofarmaco stesso.

Parlando della DEPRESSIONE, ha spiegato che dall’introduzione sul mercato degli ANTIDEPRESSIVI si è assistito ad una crescita corrispondente del numero delle persone con invalidità per disturbi mentali.

Le ricerche hanno evidenziato che gli ANTIDEPRESSIVI aumentano il rischio che:
1) la depressione abbia un’evoluzione cronica
2) che i pazienti depressi diventino bipolari
3) che i pazienti diventino stabilmente invalidi.

Whitaker spiega che prima dell’introduzione degli antidepressivi sul mercato, la depressione veniva descritta come una delle patologie psichiatriche che avevano una prognosi migliore.
Nell’arco di 6 mesi o 1 anno si arrivava alla guarigione spontanea nell’85% dei casi, con ricadute molto rare.
Dopo l’introduzione degli antidepressivi gli psichiatri osservano che la depressione va verso una cronicizzazione, con intervalli brevi tra un episodio depressivo e l’altro, con percentuali di guarigione molto più basse di quelle ottenere senza l’uso degli psicofarmaci (vedi diapositive).

In conclusione gli antidepressivi possono avere benefici a breve termine, ma peggiorano l’evoluzione a lungo termine della malattia.

Whitaker aggiunge poi che coloro che sono stati esposti al trattamento prolungato con antidepressivi SSRI possono andare incontro ad uno stato depressivo cronico, resistente al trattamento (Disforia Tardiva).

Per quanto riguarda il trattamento della SCHIZOFRENIA vale lo stesso discorso della depressione.
Gli ANTIPSICOTICI (o neurolettici) possono portare ad una cronicizzazione dei sintomi, con un esito molto più sfavorevole di quello che si avrebbe in assenza di trattamento farmacologico.
I pazienti trattati con antipsicotici per lunghi periodi di tempo possono andare incontro a disabilità sociale, oltre che presentare disturbi fisici come obesità, problemi cardiaci, discinesia tardiva e acatisia, alcuni dei quali sono irreversibili.

Whitaker ha poi presentato delle soluzioni ai problemi psicologici, come protocolli terapeutici che garantiscano trattamenti psicosociali ed un uso selettivo degli psicofarmaci che consenta di ridurre sia l’esposizione iniziale che il loro utilizzo a lungo termine.

Per quanto riguarda il trattamento della schizofrenia ha esposto il metodo dell’Open Dialogue (DIALOGO APERTO).
Questo metodo prevede un uso limitato, se non assente, degli psicofarmaci.

Al primo episodio di psicosi non vengono somministrati antipsicotici e in alternativa vengono usate piccole dosi di benzodiazepine.
Per i casi che non si risolvono a breve con la psicoterapia ed altri interventi non farmacologici, gli antipsicotici vengono usati dopo qualche settimana dall’inizio dell’episodio psicotico e quando il paziente ha raggiunto una buona stabilità clinica viene avviato il tentativo (dopo circa 6 mesi) di ridurre la dose, fino a sospenderli.
Il metodo dell’Open Dialogue dà una percentuale di guarigione superiore all’80% dei casi.

Qui in allegato, il PDF dell’evento tenutosi a Reggio Emilia il 2 Novembre 2016.

DOWNLOAD PDF: Whitaker-Reggio-2016-ita

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