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APOLLOUNDICI.org

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Diario di viaggio a tema schizofrenia, allucinazioni, psichiatria, tribunali e soluzioni di recovery.

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DIARIO

GIORNO 246: ecco perché in realtà potresti trovare sempre il lavoro dei tuoi sogni

Federico Bergna · 15/04/2019 · Leave a Comment

 

Non posso argomentare a lungo questo articolo, riferendomi nell’ambito di persone con disabilità fisiche e psichiche importanti perché meriterebbe una storia a parte, ma fondamentalmente l’approccio non cambia, che tu sia nato senza braccia o gambe o piuttosto con estreme difficoltà di comunicazione con il mondo esterno o a causa di diagnosi di patologie mentali.

Perché?

JOHN FORBES NASH: matematico ed economista con un passato segnato da una diagnosi di schizofrenia (link al video)

NICK VUJICIC: la storia di uomo nato senza gambe e braccia (link al video)

FRIDA KAHLO: sottoposta a 30 operazioni chirurgiche con alle spalle storie di violenza e affetta da spina bifida (link all’articolo)

HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC: pittore affetto a 10 anni da picnodisostosi, ovvero deformazione ossea congenita (link all’articolo)

LUDWIG VAN BEETHOVEN: divenne gradualmente sordo, affetto da ipocusia, tentò il suicidio (link all’articolo)

MADELINE STUART: modella con sindrome di Down (link all’articolo)

MICHEL PETRUCCIANI: affetto dalla nascita da osteogenesi, malattia genetica che rende le ossa fragili come il cristallo (link all’articolo)

 

La capacità dell’uomo e della donna di auto-manipolarsi è incredibile. Tuttavia è possibile riconoscere quando ci stiamo auto-manipolando. Puoi riconoscerlo con l’esperienza, o più velocemente, relazionandoti con qualcuno che ti faccia vedere.

Questa premessa è fondamentale, riguardo l’auto-manipolazione di noi stessi. Non esiste un essere umano sulla faccia di questa terra che più e più volte abbia reiterato nell’auto-manipolazione ossia dell’incapacità di riconoscere quali sono effettivamente i propri limiti e quali siano le proprie reali capacità dovute a false credenze dettate da fallimenti e al tempo stesso da aspettative future di un tempo che deve ancora arrivare.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Sono d’accordissimo. Si può interpretare la costituzione? Si deve, non si può. Tranne i valori che rappresentano. I valori non sono interpretabili. Possono essere diversi tra loro. Ma o tieni fede a certi valori oppure no. E’ compito della Repubblica? ma chi è e che cosa è la Repubblica?

Siamo tutti noi, dal primo all’ultimo e se per caso ti stessi chiedendo perché non trovi lavoro a causa della crisi, forse dovresti prima chiederti che cosa rappresenta per te il significato della parola “lavoro”.

C’è chi fa un’infanzia felice, un adolescenza non troppo travagliata, ha delle aspirazioni da giovane uomo/donna, le realizza, arriva alle fine dei propri giorni senza alcun rimpianto.

C’è chi appena nasce, gli arriva tra capo e collo una disgrazia che gli fa saltare a piè pari infanzia, adolescenza, e mi fermo qua.

Ora prova a pensare un attimo a quando non avevi più di 14 anni. Che tu sia nato “sfigato” o “agevolato”, qual’era il tuo concetto della parola “lavoro”? Prova a risponderti…

E adesso supponiamo che tu abbia passato abbondantemente o non, i fatidici 20 anni, com’è cambiato il tuo concetto e il tuo significato della parola “lavoro”?

Ti porto la mia storia. Io non volevo assolutamente concludere le superiori indirizzo ragioneria. Mi sono fermato all’inizio del 3° anno. Avevo un tetto sopra la testa, un papà impiegato perito tessile, una mamma casalinga ex segretaria in un mobilificio e un fratello. Non si faceva certo la fame. Avevo poi un nonno giardiniere scampato alla 2° guerra, un altro nonno idem scampato alla guerra divenuto poi mobiliere facendo la classica gavetta.

Mi ricordo però che in adolescenza, l’unica cosa “costosa” che mi regalarono, fu un motorino, una bicicletta e il commodore 64 per fare qualche giochino. Le vacanze per due settimane d’estate a Bibione e a Natale un paio di vestiti. Durante l’anno nada. Si aspettava il Natale e le due settimane di ferragosto come la manna dal cielo. Per il resto arrangiarsi e via.

I miei investirono su di me nello studio, per la ragioneria. Collegio privato con retta a pagamento. Potevano permetterselo essendo i classici brianzoli che mettevano via e mettevano via e mettevano via in ottica futura 30ennale (minimo) per il futuro benessere di noi figli. Hanno condotto una vita molto umile. La casa l’hanno tirata su con i risparmi di una vita aiutando e con l’aiuto dei loro genitori, altrettanto non benestanti di eredità in quanto fuggiti da fascisti in Svizzera nel dopoguerra.

Insomma gente che si era fatta un culo quadro e che da piccoli sapevano la differenza tra avere un pezzo di pane o gelare d’inverno perché mancava la legna in quel camino che ancora esiste in garage.

Genitori e nonni sono appunto venuti su con una visione del risparmio, dell’accantonare e del mettere via per i figli.

Ma io niente. Ero veramente una gran testa di cazzo. Primo anno di ragioneria andavo pure bene a voti. Fine secondo anno la sufficienza sindacale. Inizio terzo anno ci voleva un esorcista per farmi fare i compiti.

Alle medie invece non me la cavavo male. Mi piaceva scienze oppure geometria o artistica. Buttare e tracciare delle linee su di un foglio bianco. Dare forma a qualcosa. Italiano anche non andavo male. Mi piaceva già da allora raccontare. Anzi italiano andavo alla grande, nonostante non mi piacessero le regole della grammatica (e si vede tutt’ora). Alle medie pure musica. Avevo una maestra bellissima tra l’altro, che insegnava chitarra. Quando entrava lei, tutti noi maschi ci arrapavamo ma effettivamente era magnetica per il suo modo di fare. Poi venne sostituita dall’insegnante di flauto dolce e finì che io e il mio compagno di banco, quel flauto lo spaccammo a metà sul banco (me lo ricordo ancora).

Va bè ma… cosa centra tutto questo con il significato di lavoro? Se fai caso, sto facendo un regressione. Scuola superiore… scuola media. L’età in cui si inizia a volere le cose o meglio, a volerle conquistare senza che ce le regali per forza qualcuno.

Non ho ancora idea perché ai tempi delle medie, mi piombò addosso questa passione per i motori. Motori oddio… avevo il Ciao di mia madre. Prima dei 14 anni non si poteva guida il motorino. A 12 mi mettevo addosso 3 giubbotti per sembrare più grande e andavo in strada di nascosto.

A 18 anni non si può guidare la macchina senza patente. A 16 anni ho preso un paio di volte la 500 di mia mamma e l’y10 di mio fratello per qualche manicomiata in campagna.

Insomma a me sta cosa di mettere il culo su qualcosa che si muovesse, che fosse bici, motorino o macchina, mi orgasmava. Poter salire su qualcosa che andasse più veloce delle mie gambe era irresistibile.

Questa passione per i motori e la velocità, si accentuò brutalmente, contemporaneamente ai primi disagi che mio fratello inizio ad avere con la scuola prima e con il lavoro poi. Lui più grande di me di 5 anni.

In quel periodo ricordo che diventai effettivamente un soggetto da galera. Mi ostinavo a mettermi in pericolo di vita e in secondo luogo, ero pericoloso anche per gli altri.

Dimenticavo… un altro regalo che mi fecero i miei per la disperazione, era un 50ino stradale. Un aprilia RS 50. Vennero in sequenza:

  • 3 brutti incidenti in moto. Uno sotto un guard rail. Uno contro un pulmann che svoltava. Uno contro una macchina in piazza Garibaldi. Altre decine di strisciate in terra fortunamente contro nulla.

Poi venne la patente a 18 anni. Vennero in sequenza:

  • ribaltamento per una collisione presa di striscio contro un auto dove non avevo rispettato uno stop, con una bella ventina di metri sottosopra e lamiere del tetto ad un palmo di naso.
  • distruzione totale della y10 di mio fratello in tangenziale picchiando contro un muro sulla Milano-Meda con il rischio di investire contemporaneamente 2 carabinieri che avevano fermato un ubriaco sulla statale, in piena curva, di notte sul bagnato. Ritrovarono il motore della Y10 una 50 ina di metri più avanti. Macchina da mettere sotto la pressa. Ricordo che avevo il volante in mezzo alle palle. Per fortuna a pochi centimetri. In pratica ero più pericoloso io dell’ubriaco che avevano appena fermato.

Non ho ancora capito oggi perché nonostante le decine e decine di verbali tra auto e moto, non mi ritirarono mai la patente, ne sono mai finito in galera. Multe sì… a nastro proprio. Segnalazioni in commissariato ovunque. In 6 città la stradale sapeva mio nome e cognome e tutte le infrazioni fatte.

Insomma ero pericoloso. Adesso ci rido anche sopra, ma se avessi fatto male a qualcuno con la mia cretinaggine, a quest’ora non avrei molto da ridere e non voglio immaginare se mi fossi trovato con la coscienza sulle spalle, la vita di qualcun’altro. Tant’è però che quello era il periodo che sfociò poi per grazia di dio in pista per qualche anno, tra i 18 e i 21 anni.

Ora ci arrivo al lavoro.

A 16 anni, fuggito da ragioneria, il mio sogno era appunto diventare un pilota di moto. Proprio arrivare al motomondiale intendo, mica due garette così, della domenica. Cioè nel mio cervello, la scena era:

“smetto di studiare e voglio fare il pilota di moto”.

Andò proprio così. Divenni pilota di moto. Certo, non divenne una professione in futuro, ma in quegli anni di corse, un contratto ufficiale con team in yamaha dapprima e con Fantic motor poi, lo ottenni. Insomma non è poco. Il primo anno certamente dovetti pagare per iniziare (finanziamento a 18 anni di 12 mila euro per correre) ma poi qualcuno mi scelse per le qualità che avevo e posso quindi dire che, seppur per un brevissimo periodo di poche gare, correvo non più perché avevo portato budget ma perché avevo qualche qualità. Spese zero, se non per l’autostrada e poca roba.

C’erano effettivamente almeno le basi, per poter iniziare il professionismo. Ero nell’ambito del professionismo. Le basi. Il tempo, le opportunità. Mica poco in quell’ambiente.

Già… quel finanziamento. Non è che mi finanziarono i miei. Mi finanziai io. Certo, con garante mio padre. A 18 anni non dovevo pagare un affitto, avevo una casa. Ma ho potuto fare quel finanziamento e trovarmi i soldi per correre perché dopo aver abbandonato ragioneria qualche anno prima, il mese dopo ho iniziato a lavorare. In sostanza se saltavo qualche rata, i miei non me l’avrebbero pagata. Anche se nell’estrema ipotesi, pur di non mettermi nella merda, lo avrebbero estinto loro quel finanziamento. Ma ciò non avvenne mai. Sei anni di rate solo per guadagnarsi un’opportunità senza alcuna garanzia.

Avevo investito su me stesso. Sicuramente agevolato certo, da eventuali ipotetiche coperture. Ma con tutto contro. Da solo.

Tra i 16 e i 17 anni, lavorativamente parlando andò così:

  • apprendista falegname (non centrava nulla con quello che volevo fare, ma mi dava soldi per correre e andava bene)
  • apprendista idraulico nei cantieri (idem)
  • piastrellista a tagliare mattonelle in ginocchio e mischiare malta tutto il giorno (idem)
  • apprendista muratore (idem)
  • agente vodafone in giro a piedi per Milano (idem)
  • volantinaggio

A 18 anni, per i prossimi 20, la svolta: meccanico di moto in 4 officine con intermezzi tra un cambio di azienda dove sono passato dall’allestitore notturno di centri commerciali alle consegne in bici e scooter di quotidiani.

Insomma, a 37 anni qualcosa ho fatto, ma agli inizi, non ho mai considerato il lavoro come una strada da perseguire ma semplicemente un mezzo per arrivare a realizzare alcuni dei miei sogni ed essere felice, nonostante molte cose.

La differenza è tutta qui. Ci sono periodi della vita in cui ti tocca considerare il lavoro come un mezzo per arrivare ad altro, e poi ci sono altri periodi della vita in cui il lavoro che fai è veramente ciò che vuoi fare.

Ci sono anche i periodi in cui le passioni che hai, non hanno minimamente una richiesta effettiva sul mercato in quel determinato periodo storico.

Se desideri ad esempio con tutte le tue forze imparare a diventare il miglior coltivatore di arance e limoni ma poi sul mercato trovi limoni e arance per il 97% dalla Spagna o dal Marocco e il 97% della gente li compra perché costano la metà, sei un attimino fottuto dal punto di vista della competitività.

Il mercato è così. Si evolve. Insieme alla politica (che ricordo è rappresentata da persone) e al significato attribuito alla costituzione attraverso i propri valori. Che sono diversi e differenti per ognuno.

Per alcuni si evolve in peggio, per altri in meglio e non ci puoi fare nulla. Solo adattarti il più in fretta possibile. Ma se di base ti piace lavorare la terra e non in ufficio, devi quanto prima adottare la mentalità che per qualche periodo della tua vita, potresti ritrovarti a fare qualcosa che non ti piace, ma sempre la terra avrai in mente. Ma ti devi adattare.

E quando sento frasi del tipo, parlando in terza persona:

“e ma a lui non piace niente, non ha una vera passione”

“si ma lui è fortunato, aveva i genitori che avevano la stessa passione e facevano la stessa cosa”

“e ma lui è stato avvantaggiato, gli pagavano tutto”

Ma quante cazzate ci stiamo raccontando? Una cosa che posso sicuramente dire nel non farmi auto-manipolare, è proprio quella di raccontarsi palle. Le pochissime persone che mi conoscono, sanno che sono incapace a mentire e quando lo faccio, o divento rosso, o balbetto o non riesco a guardarti negli occhi mentre ti racconto una stronzata.

Perché sì, non sono anch’io oggi immune dall’auto-manipolarmi, ma mi sono allenato un pochettino diciamo a non farlo, specialmente in questi ultimi anni.

Il lavoro si trova. Sempre. In qualsiasi condizione, ma ti peserà tanto più lavorare (e cercare lavoro), quanto più ti dimenticherai il vero motivo per il quale stai lavorando o stai cercando lavoro.

Quand’anche tu riuscissi a pagarti le 1000 scadenze che ti tocca pagare, che cosa ti rimarrebbe oltre al tuo “lavoro”? E cosa succederebbe se per tanti anni sei in continua lotta tra lavorare, pagare, perdere lavoro, trovare lavoro ma poi non ti ricordi nemmeno più perché lo stai facendo?

Ci sono passato anch’io. C’è stato un periodo di quasi 2 anni, che mi sono un pò seduto. Non trovavo il lavoro che da anni portavo avanti. Mi sentivo completamente inadatto ad adattarmi ad altre professioni seppur temporanee (auto-manipolazione). Continuavo a cercarlo ma non lo trovavo. Poi ho iniziato a far finta di cercare lavoro. Poi ho iniziato proprio a non cercarlo più. Poi una persona al mio fianco mi ha detto dove cazzo stavo andando e come mi permettevo di non fare più nulla mentre lei portava a casa uno stipendio. Ha quindi chiuso i “rubinetti della tolleranza” e allora mi sono ripreso trovando lavori temporanei lontanamente anni luce dal meccanico di moto, in attesa poi di trovare risposte.

Dio mio siamo umani… non si possono avere sempre tutte le risposte così come non si possono sempre avere a portata di mano tutte le soluzioni.

Ma una cosa ce la si deve mettere ben ficcata in testa. Ti devi chiedere ogni giorno appena chiudi gli occhi la notte, perché stai facendo quello che stai facendo. Qualunque cosa sia.

Te lo devi chiedere spesso. Molto spesso. Quando smetti di chiedertelo è un problema. Diventa un grosso problema. E quando continui a ripeterti questa domanda all’infinito senza trovare mai una risposta sei sulla strada giusta. Finché ti ritroverai talmente nauseato da farti queste domande che dalla sera alla mattina, prendi una decisione. Eccola la risposta. Prendere un decisione.

Fai buon viaggio stanotte e non aver paura. Qualcuno o qualcosa, ti aiuterà sempre se avrai voglia di essere curioso o curiosa. Come un bambino o una bambina. Che al lavoro, non ci pensa proprio…

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GIORNO 245: tientelo tu, che io ho paura.

Federico Bergna · 14/04/2019 · Leave a Comment

Sono passati 20 anni da quel 1° ricovero che fece e a seguire, molti altri, compreso poi 1 anno in C.R.A.

Dopo 20 anni di psicofarmaci, mi sono reso conto che si è allungato tutto il brodo in famiglia e specialisti vari per un semplice minimo comune denominatore:

– La maggior parte degli psichiatri, hanno paura degli psicotici;
– La maggior parte degli infermieri idem;
– La maggior parte degli psicologi idem;

Famiglia, amici e parenti, idem, sono terrorizzati e impauriti da situazioni che esplodono “improvvisamente” e si mantengono tali nel tempo.

Hanno tutti paura di quello che potrebbe succedere, che succede e che è successo.

Hanno tutti così paura di farsi contaminare dalle responsabilità di risolvere o coprire atteggiamenti e situazioni, che alla fine ci si dimentica di chi o che cosa si ha paura e si rimane nell’angoscia e nel buio perenne e dei mille (e una notte) buoni consigli per la buona salute mentale e l’integrazione sociale più opportuna sempre dal punto di vista degli altri ma mai dello psicotico, che vede e ha spesso bisogno di tutt’altra realtà, la sua.

Almeno riconoscergliela per un pò cazzo… famolo contento pé un pochetto no? No nemmeno quello. Manco si può parlare con le voci. Non si può. Che sei matto?

Finché è successo che lo psicotico, dopo 20 anni, ha più palle di tutti quanti messi assieme perché sta riemergendo.

NONOSTANTE:

– nonostante famiglia, parenti, amici e fratello che si sono bellamente adagiati e rassicurati per molto tempo, da una bella sedazione prolungata negli anni a discapito del significato di dignità della vita, negli alti e specialmente nei bassi (fondi). Bassi sì… sennò come fai a capire gli alti e le mezze vie?

– nonostante la maggior parte di psichiatri, psicologi e infermieri tutti;

– nonostante (pensa un pò te….) dei moltissimi de “tienitelo tu a casa uno psicotico senza farmaci e poi vediamo come risolvi”;

– nonostante quelli de “è cronico, dalla schizofrenia non si può guarire ma solo conviverci” (conviverci nel modo e dal punto di vista non dello psicotico però, il che è tutto un dire). Poi l’estate si va al mare e chi si è visto si è visto. Avanti n’altro.

– nonostante i NO che diceva, ma che aveva ragione a dire;

– nonostante gli allontanamenti forzati. A fin di bene o a fin di male, ma comunque via perché insostenibile, è intollerabile, è pesante e da fastidio. Non si può sopportare in somma. Non ce la si fà più; voi, io, tu non ce la si fa più? Lui?

– nonostante i NO a molti degli psicofarmaci assunti e che aveva ragione a dire NO quando voleva mollarli e invece arrivavano sempre e comunque consigli da ovunque; e poi li mollava, taluni. Di botto. Visto no? ve l’avevamo detto!

– nonostante la lobotomia chimica perpetuata negli anni, sempre e solo in nome della paura di ciò che potrebbe succedere e non sarebbe mai accaduto ne ha mai compiuto dopo, ne prima;

– nonostante il modello genitoriale ricevuto in perenne contrasto e agonismo/antagonismo con parenti, nonni e istituzioni tutte e competizioni varie, inadeguatezze varie, diversità varie, aspettative varie, modelli e modi di pensare e fare vari. Ma tutti uguali.

– nonostante le cooperative del “era inadatto fin dall’inizio a lavorare qui da noi ma lo abbiamo tenuto qui per molti anni per volontà di famiglia, medici, istituzioni e varie;

– nonostante cristo santo… qualche birra in più con gli amici la sera potevi fartela a 16 anni, ma gli altri non facevano così, quelli con “la testa sulle spalle”;

– nonostante ti hanno bocciato perché quell’indirizzo scolastico lo faceva anche il cugino prodigio che poi si è laureato e tu manco hai finito il primo anno di liceo;

– nonostante i 3 anni di mobbing sul lavoro, calci in culo sul lavoro, trucioli di ottone nelle scarpe e nelle dita ogni giorno, umiliazioni di ogni genere, mani addosso, solo perché non eri pronto a fare quella vita dopo il liceo bocciato, dopo la geometri bocciato, dopo scuola professionale di tornitore bocciato, dopo il militare saltato perché avevi i piedi piatti e se dovevi partire, l’azienda doveva tenerti il posto dopo. Ma che scherzi… tenerti il posto. Eppure cazzo non eri un casinista in classe ne al lavoro, anzi… giù la testa, zitto e adattarsi sempre più in fretta. Mai adattato e tutti lo volevano che si adeguasse.

– nonostante mamma e papà “quel lavoro lo devi tenere se nò che futuro ti puoi fare?”. E nel mentre lo violentavano e nessuno si accorgeva di quanto grave in realtà fosse quella situazione prima di far sbocciare la tua prima bomba psicotica in casa. Improvvisa. Ma come improvvisa…

– nonostante la paura che ci hai scaraventato addosso perché per “improvvisa” lo abbiamo capito quando già eri per la tangente ma era troppo tardi, allora;

– nonostante gli amici persi, dileguati;

– nonostante non hai mai potuto baciare una donna sulle labbra ne farci l’amore;

– nonostante per diversi anni non sei più potuto andare in vacanza come quando facevi da piccolo e quando accadeva, nelle foto apparivi ed eri solo in mezzo al mondo;

– nonostante oggi ti porti dei segni evidenti di questi 20 anni dettati oltreché dalle tue paure, dal peso delle paure che gli altri hanno avuto di te (soprattutto);

– nonostante poco meno di un anno e mezzo fa, io e te abbiamo salutato mamma e papà uno dietro l’altro a distanza di nemmeno 3 mesi, corrosi dalla peggior specie di tumori esistenti. Sei e siamo ancora in piedi e gli vogliamo ancora un bene dell’anima nonostante i nonostante, senza rancori. Almeno da parte mia. Da parte tua ti è stata negata anche questa possibilità. Di esprimerlo, se ce ne fosse. Lo hai fatto a tuo modo forse e va bene così.

POI DOPO 20 ANNI SALTA UNO DEI TASSELLI DEL PUZZLE E SI RIPARTE TOTALMENTE DA ZERO, IN POSITIVO. ANZI NO. IN RIVINCITA. DUE VITE PARALLELE DIVISE MOLTI ANNI FA. ENTRAMBI VIA. IO PIU’ FORTUNATO, TU MENO.

Col cazzo che dirò che cosa. Ma è saltato questo puzzle. Io sò che cosa. Bisogna passare da molti “nonostante” e ancora potresti essere lontano mille anni luce.

Evitiamo di aver paura, perché è contagiosa.

PS: la maggior parte non vuol dire tutti, e meno male. Dedicato ai coraggiosi.

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GIORNO 201: desideri

Federico Bergna · 01/03/2019 · Leave a Comment

 

Ho sempre saputo che era ancora vivo dentro. Nel giorno 201 tuttavia, lo ha dimostrato. C’è una bella differenza tra tenersi dentro le cose e parlarne. Le parole hanno un potere immenso. Incanalare questa energia nella giusta direzione, ti salva. E’ lui che lo ha fatto. Nessun altro. Io ho solo da imparare, e tanto ancora. Grazie Apollo.

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GIORNO 181: ciao Papà

Federico Bergna · 09/02/2019 · 2 Comments

[Dedicato a tutte le persone che mi sono state a fianco, che lo sono tutt’ora, ed un sentito e sincero grazie di cuore ai medici e agli infermieri del reparto di rianimazione dell’ospedale di E. e della sezione Hospice di M.C. per aver dimostrato una grandissima umanità ed umilità nei confronti dei miei genitori]

I contenuti di questa storia, potrebbero urtare emotivamente il lettore per situazioni vissute o in via di sviluppo in relazione ad un argomento quale il cancro. Avviso prima, data la sensibilità all’argomento.

Papà: 18/02/1949 – 8/02/2018

Mamma: 23/12/1950 – 10/11/2017

Ma avrei potuto iniziare anche con “Ciao Mamma”. Non importa. Ormai è passato un anno da quando siete partiti per altrove. Sapevo che sarebbe successo, che avrei scritto qualcosa da gettare in pasto alla rete. Non l’avevo mai fatto fin d’ora. Una cosa che odio, è ricordare le ricorrenze. Come se per forza ognuno di noi, prima o dopo abbia la necessità di scaricare il proprio dolore con uno scritto, una testimonianza o con un mazzo di fiori davanti ad una tomba.

Parlo per me, preferisco. Io ho già dato. L’ho fatto a mio tempo quando era il momento giusto di farlo. Quindi alla fine di questa storia, spero rimarrai con una piacevole sensazione di leggerezza nel cuore ma per fartela comprendere, devo prima mostrarti cosa ho visto. Per farlo devo aprire davanti a te una porta. La devi varcare e poi non devi voltarti mai. Dobbiamo fare questo patto io te, altrimenti rimarrai con un piede mezzo dentro e mezzo fuori e ti assicuro che sarà peggio.

Alcuni esperti definiscono certe dinamiche comportamentali come “piacere paradossale”, ovvero quando il tuo livello di saturazione di dolore emotivo o fisico satura appunto, si arriva ad un picco di dolore ancora più effimero e ci si può crogiolare con piacere in questo dolore, assumendo atteggiamenti di sfida, vendetta, rivalsa verso se stessi e gli altri.

E si prova piacere nel farlo, appunto. Piacere paradossale.

In realtà ti chiedo di fottertene di queste dinamiche. Sì perché se da una parte esiste veramente il piacere paradossale, in questo caso ti porterò ad un livello superiore. Io ci sono arrivato e ci sono arrivato lasciando andare le cose come dovevano andare.

Adesso io apro questa porta. Se alzi lo sguardo è proprio lì davanti a te. Oltre la soglia farà un po’ caldo ti avviso… qui si salta il purgatorio a piè pari e si scende dritti all’inferno senza passare da Caronte.

Se vuoi fermarti ora, fallo. Se vuoi proseguire, sappi che ne uscirai vivo ma ti conviene correre e tenere gli occhi bene aperti. Io ti precederò per tutto il viaggio.

“mi dispiace… sua mamma ha un tumore maligno al retto. E’ già molto avanzato ed anche i tessuti circostanti all’ano sono intaccati dal tumore. Inoltre abbiamo constatato che ha già il fegato in metastasi, 10cm da una parte, 10cm dall’altra. Dovremo fare una colostomia. In pratica si tratta di recidere in un punto preciso l’intestino e far fuoriuscire all’esterno, sulla pancia, una protuberanza intestinale collegata ad un sacchetto che quando si riempie di feci, potrà cambiarlo. In questo sacchetto sua mamma potrà espellere.”

Se non hai mai sentito parlare di colostomia, forse dovrai rileggere più di una volta le righe sopra. Te la faccio semplice. Cagherai per quanto ti rimane da vivere dentro un sacchetto attaccato col nastro adesivo sulla pancia. L’ano non ti servirà più. Inoltre non potrai decidere tu quando espletare ne quando vorrai sfiatare. Saranno poi cazzi tuoi quando per sbaglio, magari mentre sei a letto, questo sacchetto si staccherà ritrovandoti inondato di merda fino al collo, le lenzuola, il copriletto e il piumone impregnati di feci. Magari tutto questo al risveglio al mattino perché spesso succede di notte che si stacca, specie i primi tempi che non sei pratico.

Non dovrai inoltre preoccuparti quando cambierai il sacchetto perché il foro del tuo nuovo ano artificiale lo potrai ritagliare con le forbicine e non ti impressionare mi raccomando quando togli il sacchetto e vedi le tue interiora a fior di pelle, color rosso porpora. Ti conviene adattarti alla visione perché dovrai farlo una volta al giorno, tutti i giorni, finché ti rimarrà da vivere.

Ah un’altra cosa… quel budello, che affiora, nel tempo si ingrosserà fin quanto un’arancia. Può essere che la misura massima del foro del sacchetto non basti più. In quel caso devi con le forbici, andare oltre i segni tratteggiati.

Pochi giorni dopo mi parlavano di chemio, per via endovenosa. Cicli infiniti di chemio. Ricordo bene quando l’accompagnavo nel reparto per la “terapia”. Ecco… se dovessi descrivere bene il purgatorio, potrebbe identificarsi esattamente come quella saletta d’aspetto. Lì c’erano sedute persone con lo sguardo perso, immerse nei propri pensieri. C’era sempre un silenzio che potevi tagliarlo a fette. Poi quando la chiamavano, la si portava in una saletta con all’interno due comodissime poltrone, con appese la sacca della “terapia” e questo tubicino trasparente, sottile, che finiva in vena per un’ora, lentamente.

E tutte le volte era così. Ospedale, sala d’aspetto purgatorio, poltrona con il tubicino trasparente e l’ago in vena. Porca troia… all’epoca mi chiedevo il senso di tutto quello. Che strano. Da una parte ti dicevano che era necessaria la “terapia” per poter tentare di rallentare il tumore, dall’altra invece pareva che da quella sacca, scendesse goccia a goccia la morte.

Ma tant’è che poi tornata a casa mia mamma dai cicli di chemio, non è che si trovava in ambiente tanto diverso. Dopo tutto iniziavano anche i primi farmaci in pastiglie. Una marea di farmaci. Si arrivò ad un punto tale che sul piano “terapeutico”, potevo contare fino a una dozzina di farmaci tra quelli “da prendere”, tra quelli “al bisogno” e tra quelli consigliati “al di più”. Immaginati poi le tabelline che mio papà ad un certo punto tentava di scrivere su Excel. Mattina, mezzogiorno, sera, notte. Prima o dopo i pasti. Prima o dopo colazione. A metà pomeriggio. A metà mattina. Se senti questo o quello, allora puoi prendere questo. Se però ti succede quest’altro, allora togli mezza di quell’altra al mattino. Prima dei pasti però perché prima la prendevi a stomaco pieno. Per qualsiasi dubbio, puoi chiamare il numero 666.666.666

Mio padre… che ironia la sorte. Dopo un mese dalla diagnosi di mia madre, ricovero d’emergenza per l’ennesimo versamento pleurico. In pratica la pleura per fartela semplice, è una membrana che avvolge i polmoni. Quando questa membrana si riempe d’acqua a causa d’infezioni specie per via di un tumore (pleurico) comprime i polmoni e non respiri più. E’ un po’ come avere 7 persone sdraiate sul tuo torace e se non fai nulla, vai in asfissia.

Quella volta in ospedale, a mio padre gliene tolsero 3 litri e mezzo di acqua dalla pleura. Preso per i capelli d’urgenza. Siringone intercostale e via. Aspirazione diretta toccando ferro di non prendere un’arteria e collassarlo all’istante. In quell’occasione se la cavò, per modo di dire. Non era ancora il suo momento.

Citavo l’ironia appunto. Sai perché? Perché nel corso dei mesi, mio padre e mia madre si ritrovarono anche una settimana assieme in ospedale nella stessa stanza. Lei già in fase terminale, lui conciato malissimo con l’aggravante di cuore, polmoni, diabete.

Ehi! Ci sei ancora? Non ti voltare mai ti ho detto! Quella porta l’abbiamo già varcata e se ti accorgi che puoi andare solo avanti potresti non farcela! Ti ho promesso che dopo questa storia, ne uscirai vivo e avrò anche una sorpresa per te. Non voltarti per nessuna ragione! Seguimi e basta…

Aneddoti… si certo scabrosi. Ma è la vita amico. Se pensi che non avrai mai a che fare con questo devi pensare che potrebbe accadere anche a te o a chi ti è più chiaro. Devi continuare a correre dietro di me amico, perché di aneddoti ti parlerò ora. Ricorda che ti ho portato all’inferno. Non quello descritto da Dante. Non quello descritto dalle “sacre”. E’ quello che ho vissuto. E’ quello che ho visto ed è quello che ho lasciato andare, per comprendere ed arrivare ad altro.

ANEDDOTO PRIMO

Arrivò il giorno in cui l’ambulanza portò via mio padre al pronto soccorso. Ennesimo versamento pleurico. Questa volta drammatico. Ricordo quando arrivando al pronto soccorso, un medico mi fece passare davanti a tutti e mi portò in una saletta da solo e mi chiese di scegliere:

“suo padre è molto grave. Ci sono solo due possibilità. Lasciare stare oppure eseguire una tracheotomia. Però le devo anche dire che potrebbe non parlare mai più e che potrebbe dover rimanere attaccato ad una macchina ausiliaria tutta la vita per poter respirare. Un polmone artificiale in pratica. Che cosa sceglie di fare? Se non eseguiamo la tracheotomia è molto probabile che non ce la faccia”

Cinque secondi… passarono cinque secondi credo prima di rispondere e quando ti dicono che sono interminabili in realtà non lo sono. Sono secondi che viaggiano alla velocità della luce. Quella fu la prima volta che ho vissuto un’esperienza particolare. In quei cinque secondi mi sono passati davanti gli occhi tutta la mia vita con mio padre. Adesso capisco quando si leggono in giro racconti di esperienze di pre-morte. Io ho vissuto queste esperienze più di una volta. Credimi che è successo perché ciò che avviene è quanto: i suoni attorno a te si affievoliscono. Cambia la luce attorno al tuo campo visivo. Vedi in pratica solo la persona che sta parlando davanti a te ma tu ciò che vedi, sono immagini. Immagini e ricordi che sfrecciano davanti ai tuoi occhi ad una velocità impressionante. Piccoli flash anche di molti anni addietro con lui e poi riemergi di colpo, tornando lì:

“Sì, va bene, non ho altra scelta”

Lo intubarono pochi secondi dopo, e alcune ore dopo, arrivò in rianimazione. Ci rimase ben 3 mesi in rianimazione. Morì il giorno dopo che uscì da quel reparto per trasferirlo in una residenza sanitaria assistenziale.

ANEDDOTO SECONDO

Durante la degenza di mio papà in rianimazione, mia mamma nel frattempo decise di sospendere i cicli di chemio. La memoria forse mi inganna perché ho rimosso, ma credo di ricordare che arrivò al 10° ciclo e ne mancavano ancora alcuni da fare. Non proseguì la chemio anche perché non gli trovavano più nemmeno le vene per fare i prelievi delle analisi talmente era magra. Ricordo un 43 kg sulla bilancia. Aveva da tempo iniziato a prendere solo un paio di farmaci a casa contro i 6 o 7 che in teoria doveva assumere più altri ed eventuali “facoltativi”. Si stava avviando per il viaggio. Decise che voleva morire a casa, nel suo letto, perché avrebbe potuto vedere i fiori sul balcone. Capìì che il tempo stringeva per cui mi consigliarono di rivolgermi all’hospice per malati terminali dove in pratica ti danno informazioni utili e pratiche per accompagnare il familiare, nelle medicazioni, nel somministrare anche l’ultimo farmaco. La morfina.

Quando ti prescrivono la morfina, vuol dire che ci siamo. L’ho capito dopo, poi. Beh comunque andò così. Il suo ultimo giorno, dal mattino, iniziava a rantolare con il fiato. Tirò fino alle 18:00 completamente lucida, poi accadde qualcosa.

Lei era a letto, con la schiena appoggiata allo schienale. I suoi occhi iniziarono a tratti divenire poco per volta assenti. Le palpebre poco alla volta, tendevano a scendere, ma aveva sempre gli occhi aperti. Mugugnava qualcosa. Io ero lì a fianco con lei. Le davo morfina ogni tot, a gocce in bocca. Così mi spiegarono e così io feci. Da solo. Non avendo mai visto morire nessuno, feci delle cose assurde. Del tipo che mi alzai dal suo letto e provai a mettermi in piedi al capo opposto. Facendo qualche passettino a lato per capire se potesse seguirmi con lo sguardo e rimasi sbalordito quando, nonostante il suo stato di semi-incoscienza, seguiva i miei movimenti. E allora lì mi resi conto che stavo per perderla. Arrivò l’istinto e l’istinto mi disse di prendere quel mazzo di fiori che gli avevo preso proprio la mattina stessa. Assurdo vero? Presi questi fiori e glieli misi in mano. Lei aveva sempre la testa fissa nel vuoto, ma allungò le mani e prese questi fiori e iniziò a “pulirli” come per staccare le foglie brutte quando si fà per invasare i fiori in un vaso. Continuò a maneggiarli per diversi minuti fino a che non ci furono più segni visibili della sua interazione con me o le cose attorno.

Erano le 18:00. Lei smise di respirare 6 ore dopo a mezzanotte e 10. Furono le 6 ore più incredibili della mia vita. Lei continuava a respirare, molto lentamente. Gli occhi vitrei, bianchi all’insù, con le palpebre calate per metà sugli occhi. Tralascio altri dettagli “organici”, non è necessario. Sai… la colostomia e la morfina poi rilasciano. Non è necessario dettagliare.

Nel suo ultimo quarto d’ora, nel silenzio più totale della notte e della sua stanza, notai come poi ogni singola inspirazione dei polmoni, tardava rispetto quella precedente. L’ultimissimo minuto, ricordo che passarono ben 12 secondi tra un’inspirazione e l’altra finché tutto rimase immobile. Ero in ginocchio di fianco al letto. La baciai sulla fronte e gli dissi ciao Mamma. Arrivarono le lacrime, calde e avevo stampato un sorriso sulla bocca. Dio santo piangevo e ridevo di gioia. 6 ore in cui mi ha mostrato come si fa a morire. 6 ore in cui mi ha mostrato con la dolcezza più naturale di questo mondo, come non aver paura di morire. Questa fu la seconda volta che riprovai le stesse sensazioni come in quel famoso giorno in pronto soccorso dove dovevo decidere con tre parole la vita o la morte di mio padre. Questa volta fu tutto molto più intenso quel flashback. Estremamente più intenso. Durò più a lungo di quei 5 secondi in quel del pronto soccorso. Ma non più di tanto. Realisticamente qualche minuto. Anche perché subito dopo dovevo avvisare le pompe funebri per vestire mia madre. Inoltre c’era Apollo che dormiva in camera sua. Lui non assistette a niente. Ricordo però che alcuni giorni dopo il funerale, mi disse che mi sentì piangere a mezzanotte. Questa era la seconda volta che morivo e rinascevo spiritualmente, per andare avanti. Perché ancora non era finita.

ANEDDOTO TERZO

Sei ancora dietro di me? Siamo quasi fuori dall’inferno sai? Io lo sò perché ho visto come si fa ad uscire. Non aver paura e continua a correre…

Ricapitolando, mia Mamma era morta, feci il funerale insieme ad Apollo e parenti e nel frattempo mio Papà era in rianimazione. Intubato. Ricordo che ci misi ben due settimane prima di dire a mio Papà che la Mamma non c’era più, che avevamo già fatto il funerale e che era già ben piazzata nel loculo, con a fianco già lo spazio per mio Papà. Si perché sulla lastra c’era già lo spazio per il suo nome ma lui era ancora vivo.

Ricordo poi in quelle due settimane di bugie, quanto ero bravo a mentire. Mi chiedeva come sta la Mamma? Eh sai… la chemio. Dicono che deve fare ancora qualche ciclo, tra qualche giorno ha la risonanza mi diranno come va. Lei però era nel loculo ed io ancora mi sentivo addosso l’odore dell’incenso del “purificami o signore”.

C’è da dire che io riporto le frasi di mio Papà con semplicità, ma la realtà dei fatti era un’altra. La sua tracheotomia permanente, il suo tumore pleurico, il cuore al collasso, le trombosi alle gambe, le sue corde vocali praticamente inesistenti e la famosa valvola che viene innestata in gola a tratti al posto della tracheo per tentare di dare un senso e un suono al fiato che usciva, non permettevano a mio Papà di comunicare frasi troppo articolate con il mondo esterno.

Il primo mese di rianimazione praticamente non parlò mai. Il secondo mese di rianimazione, arrivò tramite il valvolino a dire qualche piccola parola. Il terzo mese di rianimazione si era riusciti anche a farlo parlare quanto il tempo di compilare due o tre cartoline come si faceva una volta quando dovevi spedire per posta i saluti a famiglia e amici. Poi si doveva attaccare la macchina. Anche lui povero cristo, non poteva andare sotto una certa soglia di rischio. Si fecero alcuni tentativi di tenerlo lasciato staccato e devo dire che in alcune occasioni, durò anche alcune ore senza macchina ausiliaria. Ma poi niente. Troppo il rischio di far esplodere un cuore già sotto sforzo.

Il resto della comunicazione era più efficace. Sguardi, gesti della mano sinistra, espressioni del volto. In quelle occasioni ho imparato una nuova lingua. La lingua del silenzio. Il silenzio sono parole perché ad ogni pausa, segue comunicazione, verbale e non. Per cui le pause, sottoscrivono o soppesano tutto ciò che hai detto o non hai detto prima o dopo quel silenzio. Aspettare un cenno suo, interpretare, rispondere. Senza le parole. Talvolta con le lacrime. Che però non mi scendevano. Non perché mi erano finite ma perché ancora ero all’inferno. E lì fa caldo, parecchio. Ti si asciugano le lacrime all’inferno, prima ancora che possa maturare il pensiero per piangere.

Una notte, come questa mentre scrivo, avevo pensato di scrivere a mano una lettera. Decisi per lo stampatello maiuscolo, pensando fosse poi più agevole per lui leggere. Mi ero escogitato ogni singola azione che avrei fatto nel momento in cui fossi entrato in reparto per potergli dire che la Mamma era morta. Volevo consegnargli quella lettera scritta a mano.

Tutto andò tranne come avevo pianificato per una notte intera. Dormii forse due ore.

Entrai in reparto e tentai di non farmi vedere da mio padre. Il suo letto era proprio vicino allo stanzino dove siedono gli infermieri accanto a tutti i monitor e aggeggi elettrici vari. Lui mi salutò con le dita e lo sguardo ed io gli accennai un sorriso ed un ciao frettoloso mentre mi infilavo frettolosamente dietro le vetrate trasparenti dello stanzino con gli infermieri.

Ero già fottuto. Mi ero fottuto da solo. Eppure dovevo saperlo che non sono un mentitore seriale. Tranne per quelle due settimane forzate di stronzate che gli raccontavo su cosa non era successo alla Mamma.

Gli infermieri chiamarono per precauzione l’anestesista. Cazzo che ignorante che sono… anche questo non avevo pianificato. Pretendevo di informare mio padre moribondo a letto che la Mamma era morta già da due settimane senza pensare che quella notizia poteva ucciderlo all’istante.

Atra lezione di vita. Senza aforismi o modi di dire. Le parole possono uccidere ma possono al contempo far vivere.

Sentii il gelo dapprima nei piedi e poi le budella torcermi, fino alla bocca che per alcuni istanti rimase paralizzata. Presi coraggio, non so come. Un infermiere mi accompagnò vicino al suo letto e aprì attorno un paravento per dare un minimo di privacy a quell’evento, dato che tutt’attorno, c’erano in stanza altri 6 degenti più morti che vivi.

Che assurdità… reparto rianimazione, con io che stavo per comunicare a mio Papà la morte di Mamma, con il rischio di farmi sentire dai pochi presenti in rianimazione in stato di coscienza o per lo meno vigilanza, con il più totale terrore che avrei potuto uccidere mio padre con un infarto, semplicemente con delle parole.

Parole appunto… perché di quella lettera scritta la notte precedente la tirai fuori e dissi:

“Senti Papà devo farti leggere una cosa”

E gliela posi davanti. Lui guardò distrattamente la lettera ma in un attimo mi disse:

“No non voglio leggere, cosa c’è”

Ed ecco l’aneddoto. Per la terza volta, sono morto e sono rinato spiritualmente. Altri secondi, questa volta pochissimi. Flashback. Immagini che scorrono. Luci sfocate. Ricordi nitidi di lui ed altri meno nitidi. Ricordi della Mamma, pensieri verso Apollo, le vacanze da piccoli, gli occhi di mio padre. Poi riemergo, come dal fondo di un abisso e la propulsione fuori dall’acqua degna del miglior sommergibile sovietico al mondo:

“Papà la Mamma è morta due settimane fa. Scusa se ti ho mentito ma non sapevo come avresti reagito”

L’attimo seguente, mio Papà sgranò letteralmente gli occhi. Non ho mai visto uno sguardo simile in tutta la mia vita. Non ho mai visto in 36 anni gli occhi di mio Papà urlare in quel modo. Mai avrei pensato che gli occhi possono urlare. Ed era assordante… quel poco di labbiale che usciva era il nome di mia Mamma:

“La mia Anna….. la mia Anna”

E gli occhi suoi che la cercavano. Non sapeva più dove guardare. Cristo santo… ho pianto davanti a lui. Sì ho proprio pianto. In silenzio, perché eravamo in rianimazione. E la voce mia era rotta. Rotta perché ho iniziato a piangere, gli dissi testuali parole:

“Papà, se ti è rimasto ancora qualcosa a cui aggrapparti, prova a pensare a me e ad Apollo. Abbiamo ancora bisogno di te”

Andò proprio così. Gli chiedi di resistere quando invece per lui e per la sua sofferenza, era meglio che se ne fosse andato quel giorno in pronto soccorso, 2 mesi prima.

Ma tutto aveva senso. Lui decise di resistere per me e per Apollo perché se mia Mamma mi ha insegnato come si fa a morire, lui mi ha insegnato il significato e il rispetto per la dignità della vita. Di come andrebbe vissuta prima di poter dire ormai è troppo tardi. Di cosa bisogna fare esattamente quando non hai più speranze e di come tirare fuori il coraggio per difendere il diritto al rispetto dei tuoi valori, di ciò in cui credi e di ciò che spesso alcune persone, pretendono di scegliere al posto tuo, magari in buona fede.

 

E adesso caro lettore o lettrice che tu sia, puoi smettere di correre. Se sei arrivato fin qui insieme a me, vuol dire che anche tu non ti sei mai voltato indietro. Quella porta che ti ho fatto varcare all’inizio, era necessario fartela oltrepassare per mostrarti una piccola strada dell’inferno. Un sentiero diciamo.

Adesso però alza pure lo sguardo. Di fronte a te c’è un’altra porta. Io te la apro. Quella è l’uscita. Ma solo tu puoi decidere di uscire da qui. Io ti ho mostrato come fare.

Non posso dirti cosa vedrai tu, oltre questa seconda porta. Io l’ho già oltrepassata. Tre volte. Ti posso assicurare che se lo farai, inizierai a ripensare ad un nuovo concetto di tempo, che è limitato.

Non possiamo scegliere come e quando venire al mondo, ma possiamo decidere cosa lasciare in eredità verso chi incontreremo nel nostro cammino.

Buon viaggio.

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GIORNO 172: clozapina e sentire le voci

Federico Bergna · 30/01/2019 · Leave a Comment

Un uditore di voci può ritrovarsi a udire dalle 2.000 fino anche a 20.000 parole, imposte dalle voci. (dato fornito da testimonianze dirette che raccontano di come alcuni uditori, nelle fasi peggiori, colloquino continuamente con le voci per 12/18 ore consecutivamente. Per colloquiare si intende anche solo un dialogo interno del soggetto che risponde a voci che sente realmente).

Il dato è molto realistico. Per farti capire quanto possa essere invalidante la quotidianità di un uditore, guarda la foto allegata a questo post. Sono esattamente 1000 parole, che riempono il classico foglio A4 che si utilizza per stampare documenti.

Se tu dovessi stampare questo foglio, e leggere tutto di un fiato le frasi scritte, impiegheresti anche meno di 5 minuti per leggere tutto il foglio.

Ma le voci non si comportano in questa maniera ovvero non “scaraventano” 1000 parole tutte di un colpo per poi non farsi più sentire.

Immagina questo: spalma queste 1000 parole udite, in 60 minuti (un’ora). Mediamente l’uditore sentirà circa 16 parole ogni minuto, frasi alle quali l’uditore può NON rispondere oppure RISPONDERE sia vocalmente, sia con un dialogo interno.

Immagina quindi che per un’ora intera, ogni 60 secondi, l’uditore sia costretto a udire e spesso a controbattere e rispondere, ad una frase lunga 16 parole che mediamente, arriva ogni minuto.

Se ipoteticamente una giornata è fatta da 8 ore di sonno (ma spesso anche meno) sarà facile comprendere come dopo 16/18 ore di veglia, un uditore possa arrivare a sentire anche fino a 18.000/20.000 parole al giorno dalle voci.

In altri casi, la quantità e la frequenza delle voci, è nettamente inferiore, anche molto meno della metà. Per fare un esempio, un uditore di voci che sta attraversando un buon periodo emotivo dato da un controllo ed una consapevolezza di questo fenomeno, può arrivare a sentire anche solo 500 parole “spalmate” durante l’arco della giornata. Anche meno.

Va da sè che il parametro “frequenza delle parole udite”, è un riferimento importante dal quale partire per capire indirettamente, il grado di disagio di un uditore di voci.

E’ estremamente importante quindi, attuare delle vere e proprie strategie che mirino in egual modo, a:

– ridurre la frequenza e la quantità delle parole udite ad un livello accettabile per l’utente, in modo tale che la loro frequenza, non impedisca al soggetto di relazionarsi con l’ambiente esterno, le persone e il proprio dialogo interno nel prendere decisioni quotidiane, anche banali, durante la propria routine giornaliera.

– comprendere le sensazioni che si provano quando si sentono le voci. Tali sensazioni posso spaziare anche in sentimenti nettamente contrapposti tra “felicità nel sentire che la voce dice quello che dice” alla “paura o addirittura a sensazioni di terrore” che l’uditore prova nel sentire le frasi delle sue voci.

Arrivare ad un buon compromesso dove “frequenza delle voci sentite” e “gestione delle emozioni provate in rapporto alle voci sentite” è la strada da perseguire per un uditore di voci.

E’ un dato di fatto, in qualunque ambito, che nel momento in cui abbiamo il pieno controllo di noi stessi o delle situazioni che ci accadono, siamo pienamente sicuri di noi stessi.

Nel caso opposto, quando non abbiamo il controllo di qualche cosa, dobbiamo sforzarci per cambiare alcune dinamiche per recuperare sicurezza in noi stessi e affrontare quel qualcosa di diverso che non ci aspettavamo.

Per chi non conosce gli uditori di voci, provi a considerare quanto segue:

– un uditore di voci, può sentire le voci anche mentre parla realmente con un interlocutore di fronte a lui. Dedica quindi parecchie risorse per concentrarsi a non sentirle e seguire la persona di fronte, spesso, non riuscendoci.
– anche i gesti più banali fatti durante il giorno (sbucciare un frutto, intingere un biscotto nel caffè latte, chiudere una porta piuttosto che socchiuderla, e via dicendo) influenzano pesantemente l’uditore in quanto la voce, può giungere nel mentre del gesto che si compie, poco prima o anche dopo il gesto compiuto.

LA MIA VALUTAZIONE SULLA INUTILITA’ DI UN ANTIPSICOTICO ATIPICO COME LA CLOZAPINA

Quando un uditore di voci sente per la prima volta in vita sua una voce, può (non necessariamente) cadere in un barato chiamato letteralmente “TERRORE”.

Non in tutti i casi ma nella maggior parte, le fasi possono snocciolarsi come segue:
1) incredulità di aver sentito una o più voci;
2) consapevolezza di sentirle ed essere totalmente sicuro che non sono allucinazioni;
3) fase di ansia, paura per non trovare una spiegazione in ciò che gli sta succedendo;
4) fase di terrore e perdita del controllo delle proprie emozioni mentre arrivano le voci ed anche mentre non le sente;
4) isolamento totale nei confronti dei famigliari;
5) isolamento totale al di fuori del nucleo famigliare;
6) fase in cui si prova a reagire a quanto dicono le voci in quanto l’uditore le percepisce effettivamente reali. Fase che comprende dire o compiere azioni verso cose o persone che possono anche compromettere l’integrità e la sicurezza sia dell’uditore, sia delle cose o persone alle quali l’uditore si rivolge.

Quando un uditore giunge alla 6° fase, incontra la psichiatria (T.S.O. o T.S.V. a seconda della gravità di pensieri e azioni fatte dall’uditore verso se stesso, verso altre persone o verso oggetti).

Solitamente poi seguono uno o più ricoveri nell’arco dello stesso anno legato all’esordio (esordio inteso come giorno in cui l’uditore viene scoperto a parlare con le voci) fino ad altri ricoveri nei successivi 3/6 anni fino a giungere all’ultimo stadio farmacologico della Clozapina e diagnosi di schizofrenia cronica.

E’ chiaro che in una situazione estremamente delicata dove l’uditore parlando con le voci, minaccia l’integrità di cose o persone è difficile affrontare la situazione in quanto, un familiare può constatare quanto segue:

– l’uditore può solamente minacciare ma senza esser mai passato ai fatti concreti;
– l’uditore può effettivamente spaccare oggetti o minacciare la salute di persone all’interno o all’esterno della famiglia;
– in alcuni casi, può passare dalle ipotesi di mettere in pratica quello che vuole a compierlo;

Cosa faresti tu in una situazione simile non conoscendo minimamente le dinamiche di un uditore di voci come spiegato a inizio post?

Ora parliamoci chiaro… immagina un ragazzotto robusto alto i metro e novanta per 90kg che si avvia verso l’uscio di casa con l’intento di far male a qualcuno ed in una situazione dove in casa magari è presente solamente una mamma o un papà, magari di una certa età. Cosa fai?

– lo placchi e lo butti a terra?
– lo leghi fino a quando si calma?

Sono situazioni estremamente difficili, dolorose e imprevedibili. L’unica ipotesi possibile per placare una situazione d’emergenza simile è sedare pesantemente l’uditore.

Sedazione = impedimento fisico nel compiere azioni deleterie.

Ad oggi vorrei che non si arrivasse mai ad una soluzione così dirompente come l’assunzione di uno psicofarmaco dagli innumerevoli effetti collaterali fisici e psichici per tamponare velocemente e pesantemente certe situazioni ma la realtà dei fatti è purtroppo questa, in molte, moltissime famiglie alle prese con questi esordi.

E’ giusto? E’ sbagliato? Non posso darmi una risposta ora che siamo ai posteri. Probabilmente se avessi avuto moltissimi anni fa le conoscenze e l’esperienza che ho adesso con gli uditori di voci, posso giurare su quanto mi è rimasto di più caro nella mia vita, che non ci sarebbe stato nemmeno il famoso “esordio psicotico acuto” inteso come esordio nel quale l’uditore minaccia (o compie) azioni pericolose per gli altri o se stesso.

Quindi cosa ne penso? E’ utile sedare un paziente con psicofarmaci in situazioni simili?

SI’ E’ UTILE, LO DEVO AMMETTERE. MA E’ UNA PRASSI QUESTA CHE SERVE UNICAMENTE A COPRIRE UN UNICA VERITA’.
IN PRIMO LUOGO, UNA TOTALE IGNORANZA ED INESPERIENZA DI PROFESSIONISTI E O.S.S. RIGUARDO GLI UDITORI DI VOCI ED IN SECONDO LUOGO CHE LA SEDAZIONE IN QUESTI SPECIFICI CASI, NON E’ UNA STAMPELLA, COSI’ COME MOLTISSIMI PROFESSIONISTI DEFINISCONO GLI PSICOFARMACI MA SONO UNA VERA E PROPRIA COPERTA O FORSE, UN VELO PIETOSO.

Una coperta che serve nell’immediato per risolvere una situazione di pericolo che ben molto prima, poteva essere evitata.

Ad oggi ho esperienze significative vissute in prima persona per poter dire che è possibile evitare (con la prevenzione) l’uso di sostanze pesantemente sedative in uditori di voci prima che essi arrivino ad un loro drammatico esordio così come è stato descritto in questo articolo.

Men che meno è necessario l’utilizzo di antipsicotici con posologie cosiddette di “mantenimento” dopo uno o più esordi acuti, sempre come nelle situazioni descritte in questo testo.

PREVENZIONE E CONOSCENZA, SONO LE PAROLE CHE EVITERANNO TERAPIE FARMACOLOGICHE ERRATE.

Ma errate in riferimento a che cosa?

Se in fase di anamnesi, lo specialista raffronterà i dati raccolti dall’utente e dai familiari riferendosi in seguito ad un modello di raffronto ben preciso che definisce cosa è schizofrenia e cosa non lo è, la diagnosi che ne risulterà sarà molto probabilmente congruente alla terapia psicoterapeutica e farmacologica prevista.

Lo specialista quindi, insisterà, difenderà e valorizzerà l’affermare che se una persona dice, pensa, compie determinate cose, e queste parole, pensieri e azioni raggiungono un “punteggio” che determina la diagnosi di schizofrenia, la persona in oggetto sarà certificata schizofrenica avendo raccolto dati sufficienti dall’anamnesi grazie anche ad esami obiettivi.

In fase di anamnesi quindi, si raccolgono informazioni che dovranno poi essere messe a confronto con un modello, un riferimento per poter procedere verso un preciso percorso psicoterapeutico e farmacologico.

Il problema è che il modello al quale si fa riferimento, adotta poi in risposta strategie e percorsi NON ALEATORI O SOGGETTIVI MA SCIENTIFICI per far sì che un professionista, possa essere in grado di fare quanto gli è possibile in scienza e coscienza, per migliorare la qualità di vita dell’uditore schizofrenico.

E tale modello prevede:
– cosa è schizofrenico e cosa non lo è;
– quali percorsi psicoterapeutici di conseguenza adottare;
– quale terapia farmacologica di conseguenza adottare;

Ufficialmente non si può guarire dalla schizofrenia. E’ esatto! Mai affermazione è stata più coerente e veritiera, basandosi su di un modello che ha caratteristiche e strategie ben precise da attuare post diagnosi.

E come tutte le strategie farmacologiche (e psicoterapeutiche) ci sono spesso delle conseguenze che aggiungono ulteriore invalidità, sia fisica, sia psicologica.

Lo si chiama compromesso? Compromesso tra migliorare qualcosa da una parte e perdere qualcosa da un’altra?

Ma chi ha deciso che questo compromesso, sia giusto?

Chi o che cosa o in che ambito è stato deciso il peso di questo compromesso?

Lo decidono i test clinici delle case farmaceutiche il peso di questo compromesso?

Lo decidono dei test clinici il significato de “il paziente ha migliorato la qualità della propria vita?”

Lo decide lo specialista che ha preso in carico una persona definire su che cosa basarsi per poter dire “ha migliorato la qualità della vita?”

Risultati di test clinici su di un campione numerico di persone molto limitato rispetto alla popolazione mondiale, differente per età, condizioni di salute, esperienze di vita passate, estrazione sociale e innumerevoli altri fattori, rappresentano veramente un riferimento scientifico che non può essere contraddetto e confutato?

Una delle tante risposte in forma di prevenzione al modello attuale di schizofrenia, può essere questo:

PRENDETE UN UDITORE DI VOCI E SPIEGATEGLI CHE IL SUO SENTIRE, E’ UN TALENTO DA DOMARE. NON SI AMMALERA’ MAI.PRENDETE UN UDITORE DI VOCI E DITEGLI CHE HA UNA PATOLOGIA INGUARIBILE. FARA’ DI TUTTO PER COMPORTARSI E SENTIRSI MALATO. NON GUARIRA’ MAI.

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